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mercoledì 25 maggio 2011


MARSALA LA CAVALLA DI GARIBALDI

.Marsala era una delle cavalle preferite da Garibaldi. la chiamò Marsala, in ricordo della città in cui sbarcò durante la spedizione dei Mille. Morì all'età di soli trent'anni. Il 5 settembre 1876, Garibaldi disperato per l'animale, svuotò un cocomero e dopo averlo diviso in due parti, lo riempì di liquore marsala per darlo alla cavalla, per un attimo si riprese, poi spirò. si pensa fosse un baio, che la sua origine fosse sudamericana, e quindi l'eroe l'avrebbe comprata in giovane età

GARIBALDI FU FERITO (la palla di Garibaldi)

Garibaldi fu ferito in una gamba sull'Aspromonte il 28 agosto 182. A colpirlo nel malleolo destro era stata una grossa palla conica da carabina di bersagliere. Visitato sul campo dal suo medico Enrico Albanese, il Generale gli disse: Secondo me la palla è rimasta dentro, tirala fuori". L'Albanese fece un'incisione tegumentale, venne bloccato dai regi ufficiali che spedirono lui e Garibaldi in barella dall'Aspromonte sino a Silla dove vennero imbarcati sulla pirofregata Duca di Genova e depositati come prigionieri il 4 settembre al Varignano allora ospedale fortezza della Regia Marina a La Spezia. Qui alle due di notte attorno al letto 9 luminari convocati dal Ministero degli Interni per cercare di capire se la palla ci fosse o no, tra questi il professore Luigi Porta di Pavia e il professore Rizzoli, futuro fondatore dell'Istituto Ortopedico bolognese.
Tutti e nove scavarono nella ferita ma non trovarono nulla, intanto Garibaldi aveva una febbre da cavallo, la gamba gonfia e bollente, la lesione piena di pus. Arrivò da Londra il 16 settembre il prof. Richard Partrdge che pure lui affermò la non presenza della palla. Il 9 ottobre Garibaldi delirava e la gamba si era gonfiata fino all'inguine. Il 17 giunse da Milano il prof. Agostino Bertani che disse: "Che palla ci sia o meno, è troppo tardi: bisogna amputare"Dopo varie prove per ricercare la palla il 20 settembre Garibaldi fu portato a Pisa dove il prof. Paolo Tassinari riuscì ad infilare in modo giusto lo spicillo, trovando tracce di piombo. Il 23 novembre dopo tre mese la palla fu estratta durante una lunga operazione ovviamente senza anestesia dall'amico prof. Zannetti all'ospedale di San Giovanni di Firenze.

lunedì 23 maggio 2011

I MILLE......PANE; CACIO E....VINO

A Marsala Garibaldi fu ricevuto dal sindaco: Tosto si diè mano ad apparecchiare la mensa... con cacio di Sardegna e qualche pane e un canestro di baccelli e due anfore di terra piene di vino bianco....Tutti in cuor nostro maledivamo la prima cena siciliana....rosicchiavamo il pane duro e quel cacio che par fratello del calcinaccio, quando ci fu annunciata la visita del signor sindaco seguito da due assessori che volle recitar un discorsetto....ci volle poco a capire che il sindaco facea visita di dovere, e null'altro, egli rivolgendosi al generale, si pofessò docente nel vederlo seduto ad una mensa tanto povera, e scusò la città e i cittadini, dicendo che l'improvviso arrivo e le granate delle navi da guerra avevan fatto perdere la bussola a tutti quanti...il sindaco si rivolse a Garibaldi biascicando le parole: "Signor Generale, se vi degnate di accettare, non saprei, qualche bottiglia, ma il Generale lo freddò rispondendogli: "Grazie non bevo vino".
Giacinto Bruzzese all'incontrario del Bandi scrive:" La notte dell'11 maggio nessuno fuggì, nessuno uscio si chiuse, nessuno dei Mille rimase digiuno, anzi ad onore del sindaco, anche adora tarda vedevansi aperte le botteghe da caffè, e quelle dei bettolieri, prestinai, pizzicagnoli e venditori di ogni specie di commestibili per provvedere alle numerose richieste. Tutti i garibaldini dispensati dal servizio si ebbero alloggi presso famiglie civili, e nelle ampie sale comunali: ed al Generale Garibaldi fu assegnata la casa del Cavaliere Vincenzo Fici Burgio in punto centralissimo,e poco distante dal Palazzo del Comune ove vi era il Quartier Generale. Era passata la mezzanotte, per le vie della città non c'era anima viva, il colonnello Bruzzesi, che in tutto il giorno non aveva preso nutrimento, nè un sorso d'acqua, impedito dal proprio dovere, era divorato dalla fame; trovò una bottega da calzolaioaprta, vi si introdusse, pregando il seguace di San Crispino di dargli, o di procurargli qualche cosa da mangiare: la buona massaia non gli diede la possibilità di ripetere la domanda: Saltò fuori dalla bottega ritornando dopo brevi istanti ed ammanettandogli un piatto di pasta consa, del formaggioe del vino. Ebbene, afferma Bruzzese" per quanto feci, non potei riuscire a far accettare un centesimo a quella povera gente"

I MILLE PANE, CACIO....E VINO II Parte

Dunque pasta condita, formaggio e vino quel vino che anche Carlo Invernizi ricorda nel suo diario:  "sbarcati in fretta e furia ebbi l'ordine con sei uomini di occupare le carceri. M'istallai subito nelle carceri e fatta la rivista dei carcerati aspettavamo altri ordini secondo la consegna di Nullo quando uno dei miei compagni salta su a dire:" sapete che a Marsala c'è del buon vino, se ne prendessimo un quartino?" Accolta la proposta all'unanimità, si fece venire dalla vicina bettola un quartuccio di quello buono e avendolo gustato sentendo che il costo era di appena un carlino si fece diverse volte il repeatatur cagionando una mezza parrucca". Quel vino fu apprezzato e bevuto abbondantemente, lasciata Marsala, la prima sosta venne fatta all'ex feudo Buttagana, proprietà di un signor Antonio Alagna da Marsala. Qui i mille si riposarono e si rifocillarono" Che gioia un poco d'ombra e che sapore il po' di pane che ci han dato" E il Generale seduto ai piè di un olivo mangia anche lui pane e cacio, affettandone col suo coltello e discorrendo alla buona con quelli che ha intorno:" Io lo guardo e ho il senso della grandezza antica" come annota Abba. Il castaldo fece spillare da una botte il vino riempendo le tinozze, i Mille passando ad uno ad uno vi attingevano con una scodella e si dissetavano. Il Bandi eleva un inno a quel vino:" Bevemmo roba degna della mensa dei cardinali e di Lucullo. Lasciato quel luogo idilliaco, la scena cambia rapidamente, Garibaldi è obbligato a lasciare la strada rotabile per una mulattira che passando attraverso i feudi arriva a Salemi. Qui i lamenti dei garibaldini" Il sole che piove piombo liquefatto", contro l'acqua che è rara e del resto è proibito bere, contro la strada sassosa, tortuosa, ingombra di sterpi e di erbe, con frequenti salite che affaticano.

PANE,CACIO E......VINO III Parte

Garibaldi, dopo alcune ore di questo faticoso tragitto, accortosi del disagio dei suoi, ordinò una sosta di venti minuti: i Mille erano stanchi e morti di sete. D'altra parte ogni volta che incontravano un rigagnolo e si affollavano per dissetarsi, Bixio si metteva a guardia per impdire che bevessero a sazietà potendo andare incontro a qualche infezione: così avvenne che ricorressero alle fave verdi masticandone anche la buccia per mitigare la sete. Tutti raccoglievano e sgranavano baccelli: toscani, genevosi e meridionali abituati a mangiare le fave crude, se ne deliziavano, piemontesi e lombardi si stupivano di quel nuovo cibo, e tremavano all'idea che costituisse il loro pasto nei giorni a venire, come aveva pronosticato il generale Garibaldi. Cibi semplici, campagnoli quelli che la natura offriva in quel momento. Il 14 maggio Garibaldi giunto a Salemi, assunse la Dittatura di Sicilia in nome di Vittorio Emanuele Re d'Italia. Per quanto riguarda il vino, Garibaldi tornò a Marsala il 19 luglio 1862, visitò lo stabilimento Florio, là bevvè e lodò il marsala che fu denominato "Garibaldi dolce". Garibaldi alzatosi di buon ora visitò l'antico porto di Marsala e l'isoletta di Mozia dove non volle solo scendere, ma partecipò con tutto il cuore alle gioie domestiche degli abitanti. Egli mangiò in una di quelle case pane nero, uova e delle lumache ben cotte e condite con l'aglio. Ritornato in città dopo essersi riposato, garibaldi si recò nella chiesa della Madonna della Cava dove, insieme al figlio Menotti, assistette alla S. Messa.

domenica 22 maggio 2011

LETTERE DELLA SPEDIZIONE DEI MILLE

Ad ogni terrazza una scarica, una corsa fremebonda, sotto la mitraglia nemica,una mischia rapida, muta, disperata, un momento di riposo a' piedi della terrazza conquistata, e daccapo un'altra scarica, un'altra corsa, altro nobile sangue che gronda, altri italiani che uccidono italiani; finchè viene un punto in cui il coraggio avendo ragione del numero e la costanza della morte, il nemico scacciato di altura in altura, abbandona il campo: ecco Calatafini. G: Guerzoni: Vita di Nino Bixio
Talamone, 8 maggio 1860: Caro Bertani, nella notte della nostra partenza si smarrirono due barche di Profumo (capo barcaiolo) che portavano le munizioni, tutte le carabine a revolver, 230 fucili ecc...Nel giorno seguente cercammo invano tali barche per molte ore e proseguimmo...
Qui abbiamo rimediato alle principali urgenze, grazie alla buona volontà delle autorità di Orbetello e di questi...
Fra poc avrete altre notizie di noi.
Frattanto fate ritirare tutti gli oggetti suddetti. Con affetto, vostro Giuseppe Garibaldi
Salemi, 13 maggio 1860:
Caro Bertani, sbarcammo avant'ieri a Marsala felicemente. Le popolazioni ci hanno accolto con entusiasmo e si riuniscono a noi in folla. Marceremo a piccole giornate sulla capitale_spero che faremo la valanga_ ho trovato questa gente migliore dell'idea che m'ero fatta. Direte alla direzione Rubattino, che reclamino i vapori Piemonte e il Lombardo dal Governo - ed il Governo nostro li reclameà naturalmente dal Governo napoletano. Che la Direzione ci mandi armi e munizioni, quanto più può. Medici dovrebbe occuparsi del Pontificio- io diedi ordine a Zambianchi di mettersi a sua disposizione. Serva questa per Medici Scriveteci Vostro Giuseppe Garibaldi

LETTERE DEI MILLE

Calatafimi, 16 maggio 1860:
Caro Bertani, ieri abbiamo combattuto e vinto. La pugna fu tra gli italiani- solita sciagura- ma che mi provò quanto si possa fare con questa famiglia, nel giorno che la vedremo unita.I combattimenti da noi sostenuti in Lombardia furon assai meno disputati che non fu il combattimento di ieri. I soldati napoletani, avendo esaurito le cartucce, scagliavan sassi contro di noi disperati. Domani seguiremo per Alcamo, lo spirito delle popolazioni si è fatto frenetico, e io mi auguro molto bene per la causa del nostro paese, Vi daremo presto nostre notizie. Vostro Giuseppe Garibaldi
PS: Questa serve per Medici, pure
Lettera a Rosolini Pilo: Riunitevi a noi, oppure inquietante il nemico in questi dintorni se più vi conviene, qualunque arma è buona per un valoroso: fucile, falce, mannaia, un chiodo alla punta di un bastone. Fate accendere fuochi su tutte le alture che contornano il nemico. Tirete qualche fucilate che si può di notte sulle sentinelle e sui posti avenzati. Intercettate tutte le cominicazioni. Insomma, circondatelo in ogni luogo. Spero ci rivedremo presto
Giuseppe Garibaldi

lunedì 16 maggio 2011

BERGAMO LA CITTA' DEI MILLE

La notte del 7 luglio Garibaldi giunse a Caprino Bergamasco, la sera dello stesso giorno gli Austriaci lasciarono Bergamo, all'alba dell'8 la gente salutava la liberazione della città e da una estra, sopra il Caffè Centrale del Sentierone, veniva esposta la prima bandiera tricolore. Garibaldi entrò in Città Alta dalla Porta San Lorenzo, che verrà poi chiamata col suo nome. Nella stessa giornata emanò un proclama: "Tutti i giovani che possono prendere un fucile sono chiamati intorno alla bandiera tricolore". Gabriele Camozzi responsabile degli arruolamenti, in due giorni arruolò più di mille nuovi volontari, le iscrizioni avvenivano nelle scuole ai Tre Passi. Il 12 agosto il Re Vittorio Emanuele arriva a bergamo ospite nel palazzo Medolago dove ricevette la rappresentanza cittadina e Garibaldi che si trovava presso la famiglia Camozzi a Ranica. Nella primavera del 1860, precisamente il 20 aprile, tra gli studenti di Bergamo si sparge la voce della spedizione di Garibaldi. Si seppe che Francesco Nullo e Francesco Cucchi avevano iniziato gli arruolamenti, mentre Vittore Tasca, Daniele Piccinino e Luigi Enrico Dell'Ovo, conducevano i giovani al luogo delle iscrizioni, posto in un vecchio fabbricato di via Borfuro. Non solo dalla città, ma anche dalla provincia giunsero giovani patrioti. Si raccolsero circa duecento volontari è per questo che Garibaldi chiamerà Bergamo "la citta dei mille". Bergamo fornì non solo un quinto dei Mille, ma provvide anche a vestirli con le famose camicie rosse. A Gandino si tingeva uno scarlatto la cui ricetta era segreta, perciò si incaricò l'industriale Giovan Battista Fior a provvedere alla stoffa e alla tintura. Così dalla Tintoria degli Scarlatti, nella valle del Prato Servalli in Gardino, uscì la fiammeggiante stoffa che servì per confezionare le camice, cucite in via Prato a Bergamp, nel laboratorio di Celestina Belotti, allora fidanzata del Nullo.

BERGAMO E I MILLE

 REDUCI GARIBALDINI
Gran parte dei bergamaschi entrarono a far parte dell'8 compagnia, comandata da Angelo Bassini, dallo stesso Garibaldi fu chiamata la Compagnia di ferro.

GARIBALDINI A CALTANISSETTA

Quei giorni furono trascorsi in un clima di tranquillità, dispensandi parentesi di mondaneità agli uomini in camicia rossa. Agli ordini del colonnello Eber i primi garibaldini entrano in città il primo luglio 1860, mentre il giorno dopo è la volta del grosso della brigata, tra gli applausi della folla, lo sbandieramento delle bandiere, bisognava pensare ora al vitto di così tanti uomini. nascono quindi mense per tutte queste truppe, seicento uomini. Il chincaliere Antonio Pezzati offre ai militari 800 posate e 800 coltelli senza predendere nessun indennizzo.L'illuminazione della città è sfarzosa, gli uffici pubblici, i grandi palazzi, le abitazioni private anche quelle meno abbienti, mandano luce, mentre in Piazza Garibaldi e nelle vie principali viene sistemata una serie di piramidi allineate ( le particolari strutture di legno ricolme di luci, che anticamente venivano impiegate nelle grandi occasioni). Ad intrattenere gli ospiti, bande musicali che alternano musica classica a melodie popolari. In quei giorni vi era una particolare coincidenza la processione di San Michele che dalla chiesetta di contrada Sallemi doveva arrivare in Cattedrale. Dumas ospite nel palazzo del barone Trabonella, viene conferito della cittadinanza onoraria nissena. Gradisce parecchio tanto che durante la processione si afficina alla statua del Santo " San Michele, io son cittadino caltannissette, prendimi sotto la tua protezione" la folla di rimando urlando: "Dumas nostro concittadino". Per sdebitarsi col barone che lo aveva ospitato gli regala una copiadel suo romanzo: " Les Trois  Mousquetaires" con questa dedica : A mon cher Baron Trabonella et frere en SAINT MICHEL

DALLE NOTARELLE DI ABBA (Caltanissetta, Piazza Garibaldi)

Abba il 3 luglio scrive:La festosa accoglienza di ieri era una lustra?. Oggi la città è silenziosa, pare che noi non ci siamo più, la gente attende alle cose sue come dicesse: ho fatto il dover mio e basta" Altri festeggiamenti arriveranno il 7 luglio all'interno di villa Amedeo, con lo stesso Abba che quel giorno annota: "Festa da fate, i viali del giardino parevano di fuoco, il verde degli alberi e delle spalliere luccicavano di splendori metallici, le donne di Caltanissetta coi mariti, coi fratelli, con noi, parevamo una famiglia innumerevole che si rallegrasselà dentro di qualche lie avventura. Rinfreschi,vini e dolciumi, tanto da satollare per una settimana tutti i poveri della città, si ballò, si conversò, si dissero cose di libertà e d'amore" . Molti giovani nisseni si uniscono a rinfoltire le file garibaldine, si tratta di volontari che "corrono a ricevere il battesimo del patriottismo nei campi cruenti dell'onore"

Dal diario di Andrea Pacini: "Grazie, Mille"

Così scrive: " Come giungono i volontari, il mio compito è di cercare di avere quante più notizie possibili, nome cognome, paternità, età, luogo di nascita, mestiere ecc...Il lavoro può sembrare facile e forse lo è per un impiegato del distretto militare ma non è per me che non ho nè un ufficio, nè una scrivania ma posso essere soddisfatto di aver avuto in dotazione una penna, un quaderno, una sedia sgangherata per il mio difficile compito di registrare gente che non vuole essere registrata, perchè ha disertato dal reggio esercito o perchè è scappata di casa, come quasi tutti gli studentelli che qua sono veramente numerosi. Dalla Sardegna ( sua terra natale anche se ora vive a Livorno) ci sono tre rappresentanti, uno della provincia di Sassari si chiama Tarantini Angelo, nato all'isola della Maddalena ma residente a Thiesi, dove possiede una bottega, è una persona simpaticissima, parla abbastanza bene l'italiano, solo che al posto delle virgole, usa la parola "cazzu". Gli  altri due sono cagliaritani e si chiamano, Efisio Gramignano, ingegnoso meccanico e il giornalista Vincenzo Brusco Onnis. Il pacini avendo raggiunto poi la spedizione a Palermo rivede il Tarantini " l'ho trovato molto migliorato nella pronuncia dell'italiano, invece di dire "cazzu" dice "cazzo" Il Gramignano intervenne per salvare la vita a Bixio, Garibaldi glielo chiede personalmente elogiando le virtù della Sardegna e dei sardi.
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domenica 15 maggio 2011

I MILLE DI GARIBALDI

Al Quartier Generale il capo era il colonnello Turr che allora aveva 35 anni, bellissimo uomo, alto diritto con due gran baffi e un gran pizzo scuri, occhi pensosi ma vigili e mobilissimi  sotto la fronte quadrata a torre. Ungherese come il Turr, un pò più giovane del Turr v'era Tukory, morì a Palermo. C'era poi Cenni di Comacchio uomo di 43 anni, avanzo di Roma e della ritirata di San Martino, uno tutto fremiti che ad averlo vicini pareva di camminare col fuoco in mano presso ad una polveriera. Amico del Canni v'era l'ingegnere Montanari di Mirandola, anch'egli avanzo di Roma, che aveva 38 anni ma ne dimostrava 50 per la tetraggine che gli avevano impresso le sventure del paese, aveva patito nelle carceri di Mantova e Rubiera. Gli stava a fianco un senese, che da giovane aveva fatto versi, sembrati al Niccolini degni del Foscolo. Nei suoi ventisei anni bellissimo e forte, era sempre gaio. Era poi quel pobero Bandi, dove cinque ferite infertagli a Calatafini non lo fecero morire qnzi fu ucciso, quasi vecchio da uno sconosciuto. Vi era Giovani Basso, nizzardo ombra del Generale, Crispi allora poco conosciuto e l'Elia anconitano, che poi a Calatafini fu quasi ucciso per coprire Garibaldi. Poi il Griziotti, pavese di 38 anni matematico di bella mente e di buon cuore, il Gusmaroli antico parroco del mantovano di 50 anni ardito combattente. Il tocco michelangiolesco lo metteva in quel gruppo Simone Schiaffino, bel capitano di mare, che pareva andasse studiando Garibaldi per divenire simile a lui.

I MILLE DI GARIBALDI

Allo Statio, Maggiore generale presiedeva il colonello Sirtori, antico sacerdote, aveva chiuso per sempre il suo breviario, portando con se un cuore casto e serbando nella vita la serenità e la povertà dell'asceta. Aveva 47 anni, col volto patito, barba ancora bionda, esile, silenzioso, pensoso. da lui dipendevano  il capitano Bruzzese romano di 37 anni, il matematico Calvino trapanese di 40 anni, Achille Maiocchi milanese di 39 anni, Giorgio Manin figlio del Presidente della Repubblica veneziana che non aveva ancora trent'anni. Ufficiali minori, Ignazio Calona, palermitano, un gran bel sessagenario, il mantovano ingegner Borchetta di 32 anni, repubblicano, ultimo vi era un giovane tenente dell'esercito piemontese, disertore per unirsi ai Mille. questi doveva morire a Calatafimi sotto il nome di De Amicis, si chiamava Costantino Pagani

ABITANTI DI CAPRERA DOPO IL 1859 descritte da Quaranta

Risulta dalla descrizione del Quaranta che a Caprera oltre a Menotti vivessero i giovani Bidischini e Canzio. Francesco Bidischini, figlio del Conte Giuseppe Bidischini Dall'Oglio, un'antica famiglia veneta vissuta a lungo in Turchia, a Smirne, sul filo delle attività legate al Commercio della seta. Fu presentato a Garibaldi nel 1859: nato nel 1835, il giovane ha 24 anni. E' fratello di quell'Elisa Lavagnolo Bidischini nota per il suo impegno nel Risorgimento. . Di lei si dice che era di grande bellezza e riuscì in alcune delicate missive affidatele da Cavour e Rattazzi con le quali era in contatto grazie allo sposo ufficiale dell'esercito piemontese. Il 9 luglio 1868, Menotti sposa a Bologna la sorella di Francesco Bidischini, la sedicenne Francesca Italia. Il giovane Canzio si è arruolato con Garibaldi: è carabiniere genovese, ha 23 anni durante la Spedizione dei Mille, 24 quando sposa Teresita, il 26 maggio 1861 si trova a Caprera. Teresa è spesso condotta a Caprera dai coniugi Deider che ne assicuravano l'educazione a Nizza, Rosa madre di Garibaldi muore nel 1852. Ricciotti è stato affidato a Emma Roberts che abita a Londra, tiene con sè alcuni mesi il bambino e poi lo indirizza verso un collegio di Liverpool. Teresa è tormentata durante la vita austera di Caprera per non poter dar sfogo alla sua giovinezza. Aveva appena sedicianni quando sposò Canzio, a Caprera, Quaranta scrive: Menotti e Teresa giovinetti si recavano spesso alla Maddalena, ove facevano frequenti feste da ballo, i balli si protraevano fino alle due del mattino e spesso fino al giorno seguente

VITA A CAPRERA

Dai ricordi del Bottini: la madre della Signora Rosina accudiva alle faccende domestiche aiutata dalla figlia ragazzetta, La casa del Bottini era una casa solida, con vasti ambienti. Tutte le attività della fattoria erano regolarmente registrate e scritte su quaderni e servivano a ,mantenere il controllo e il governo del personale, di tutto quello che si comprava e si vendeva e per quanti saltuariamente

sabato 14 maggio 2011

DUMAS

Lo scrittore conobbe a Parigi il fratello maggiore, Alexandre, di Nino Bixio, personaggio rimasto in ombra nellae storia, ma decisivo in alcuni passi del Risorgimento. Immigrato giovanissimo, giornalista, medico, deputato, uomo d'affari e amico personale di Dumas (incontrato sulle barricate del Trenta) aveva fatto da tramite fra Cavour e NapoleoneIII. Fu lui fra l'altro a combinare il matrimonio fra il cugino dell'imperatore e la figlia del re Vittorio Emanuele. Fu attraverso i fratelli Bixio che Dumas entrò in contatto con Garibaldi. Dumas descrive Garibaldi avvolto in un mantello scuro, e Bixio in un'uniforme militare con i risvolti rossi

venerdì 13 maggio 2011

DUMAS

Cesare Abba ci riferisce che "Dumas è venuto in Sicilia a pigliarsi la vendetta della prigionia fatta patire dai Borboni vecchi al padre suo, generale di Francia, portato dalla tempesta sulle coste di Puglia, mentre tornava ammalato dalla spedizione d'Egitto. Dunque a Dumas non erano simpatici i Borboni, ma egli amava L'Italia dove venne più di una volta. Visitò la Calabria nell'autunno del 1835 sotto il nome di Guichard non avendo potuto ottenere dalle autorità borboniche il visto d'ingresso proprio per le sue simpatie per Garibaldi e per motivi d'indipendenza italiana. Era assieme a sua moglie l'attrice Ida Ferrier e all'amico Jodin, venuto con loro per riprendere con la sua matita schizzi di paesaggi e scene di vita calabrese. Dumas ammira la Calabria tanto da ambientare alcuni romanzi in questa terra. Nel 1860 Dumas raggiunge Garibaldi in Sicilia, il Generale gli chiede di comperare in Francia dei fucili, armi che lo scrittore va a comprare a Marsiglia e che gli consegnerà. Poi raggiunge la rada di Napoli e a Salerno, si mette a contatto coi patrioti e distribuisce le armi e munizioni.

DUMAS

Il 15 giugno sarà testimone oculare della Battaglia di Calatafimi, che narrerà nel libro "Les Garibaldines", il ! luglio sucessivo, alla vigilia della marcia su Caltanissetta, nella sua bella tenda, nella Piana di Santa Caterina, giace estasiato su un tappeto vivo di colori accanto ad una giovane bellissima donna.A questa vista dice L'Abba: " il sangue mi fece cavallone, dunque sotto quella capigliatura da creolo hanno vissuto i tre moschettieri? Mi hanno raccontato che Dumas ha nel porto di  Palermo una goletta chiamata Emma, dal nome della giovane donna che ho veduto....dicono che sia grande amico del dittatore e del colonello Eber, col quale si saranno conosciuto in Asia. Custodisce la donna sua gelosissimo, non ha che un servo vestito da marinaio, quest'oggi desinerà  cogli ufficiali e sarà bello sentirlo.Dumas non abbandonò mai la causa italiana e a rivoluzione conclusa resterà a Napoli fino al 64. Interessante per lui fu la questione del brigantaggio

giovedì 12 maggio 2011

CIBO DEI GARIBALDINI

Gli storici concordano nel sottolineare che le difficili condizioni di approvvigionamento alimentare sono state una concausa del fallimento di alcune imprese risorgimentali come ad esempio la sconfitta degli insorti lombardi durante la prima guerra d'Indipendenza su cui lo stesso Comitato di Pubblica Difesa di Milano scrisse: Si è detto, si è ripetuto che vari corpi non ebbero viveri, quali per 48 ore, quali per 36 ore e che i soldati sfiniti  per gli stenti e le fatiche morivano per le vie d'inedia. A Custoza le condizioni sono molto simili. Così si esprime un ferito rivolgendosi ai compagni nelle retrovie: Prima di battervi procurate di aver mangiato un boccone, non sono solo stati i cannoni austriaci a vincerci, ma il digiuno. Siamo andati in battaglia come quando da ragazzi ci portavano a cominicarci, e in tutto il giorno non abbiamo toccato un filo di pane nè un sorso d'acqua e i nostri morivano di sfinimenti. Nella normalità ossia in tempo di pace, le razioni alimentari dei soldati, in particolare in Piemonte negli anni intorno al 1850, prevedevano due pasti al giorno e tre diverse tipologie: i giorni di grasso con 155 g di carne di bue, pane pasta o riso, 0,15 g di sale, 15g di lardo e di 350ml di vino. I giorni di magro veniva sostituito il lardo col burro e l'assenza di vino. Guerra del 1866, due garibaldini, uno marchigiano, uno fiorentino che vengono avviati a Bari  da cui partiranno in treno alla volta del trentino in un viaggio lunghissimo e disastrosissimo. il marchigiano, figlio di un operaio e lavoratore lui stesso è forse più avvezzo a sopravvivere con poco. Il giovane fiorentino è uno studente. Nelle sue MEMORIE ALLA CASALINGA DI UN GARIBALDINO insieme al racconto dei fatti di quell'anno,  appaiono frequenti riferimenti al cibo. Durante il lungo viaggio gli approvigionamenti venivano promessi ad ogni sosta e l'ora dell'arrivo e i pasti non erano sempre rispettati.

IL CIBO DEI GARIBALDINI

Riferisce il giovane fiorentino: la carne di Acquaviva (Puglia) è un mito: a chiedere una minestra e un pò di lesso, non capiscono neppure. Si cibano soltanto di salumi e formaggio e nelle case accendono di rado il fuoco, un paio d'uova al tegame è il non plus ultra della splendidezza culinaria, ma credo che le mangiasse a malapena il Sindaco e neppure tutti i giorni. Le scellerate minestre e i perfidi intingoli mangiati a Bari avevano bisogno di stomaci a tutta prova affermava il volontario fiorentino che mal sopporta quel vino del mezzogiorno grosso e gagliardo. Quindi il cibo dei Garibaldini consisteva in pane o gallette, vino con poco companatico, perlopiù formaggio. A volte si poteva mangiare qualche minestra o un pò di polenta. Si nutrivano con cibi locale estremamente semplici come uova,salumi, patate, qualche volta frutta, raramente carne

lunedì 9 maggio 2011

DUMAS E GARIBALDI." L'Asia può attendere" e raggiunse l'eroe a Palermo

Nel gennaio del 1860 all'albergo Trombetta di Torino avvenne l'incontro tra lo scrittore e Garibaldi. Il francese scamiciato e come sempre un pò esaltato, si precipitò nella camera dell'eroe " Generale che giorno è oggi?" Garibaldi preso alla sprovvista rispose: "oggi è mercoledì quattro gennaio... "bene generale ascoltate attentamente, vi predico che entro un anno sarete Ditttore. E adesso lasciate che vi abbracci" Siete Alessandro Dumas' esclamò Garibaldi. E alle parole seguì un abbraccio fervito e caloroso.la notte del 31 maggio del 1860 Dumas riesce a partire con una goletta da Genova: meta è Palermo: il tempo è infame, la traversata è tutto...un concerto di scricchioliii di vele e di sartiame, il viaggio è lunghissimo. La nave passa da Caprera. L'8 giugno la Sicilia viene avvistata e il 10 giugno arriva a Palermo. nella goletta Dumas portò con sè 888 fucili ultimo modello. Dumas raccolse fondi per poter far fronte a queste spese, rimettendosi anche di tasca sua. Il sessantenne scrittore portava con sè un grazioso marinaretto. Il "marinaretto" altri non era che la sua ultima fiamma, la sedicenne Emilie Cordier già madre di una figlioletta di Alessandro. cesare Abba quasi se ne innamorò, c'è chi trovò sconveniente la cosa e dissuase l'Abba

DUMAS E IL GENERALE

Garibaldi arriva a Napoli in treno, Dumas lo raggiunse poco dopo e il loro incontro è commovente, per la prima volta il Generale gli dà del tu, lo fa alloggiare per quanto tempo vorrà nel lussuoso Palazzo di Capodimonte, infine gli offre la carica di Direttore degli scavi e dei musei e un permesso di caccia valido anche per il Parco di Capodimonte. si diceva :" Dumas a Capodimonte ha ucciso galline e pulcini" E Garibaldi, ridendo:" Dumas è cacciatore...avrà ucciso soltanto galli!

garibaldi a tavola

 reca una specie di pallina bucherellata che si chiamava bombillaNel pomeriggio prendeva volentieri una tazza di tè, ma preferiva il mate, bevanda simile al tè. Il mate lo si beveva da un'apposita zucchetta, succhiandolo attraverso una cannuccia d'argento che all'estremità. Altra sua passione erano le olive, che prodceva nella sua terra e conservava in salamoia. Quando le olive erano mature, le salava, le seccava al sole e per lui era un antipasto. La caccia a Caprera era praticata dal figlio Menotti ma si potevano abbattere solo animali di grossa mole, beccacce, tordi, pernici, Garibaldi aveva messo il vieto di uccidere uccelletti. Anche a pesca andava prefalentemente Menotti, portando con sè la piccola Clelia, magari ancora mezza addormentata, visto che partivano in barchetta all'alba. Gusti semplici, dal ritorno dalla Sicilia portò con sè solo un sacco di sementi, una cassa di pasta e una balla di stoccafisso

GARIBALDI

A TAVOLA CON GARIBALDI

I testimoni sono coco l'altrancordi nell'affermare che Garibaldi mangiava poco e frugalmente, beveva quasi sempre acqua a volte appena colorata con vino rosso. Era ghiotto di alcuni piatti primo fra tutti il "ciurasco" carne bovina cotta alla brace. Clelia Garibaldi nei suoi ricordi scrive:" Specialmente nella stagione invernale quando nella camera da pranzo si accendeva il cmino, Papà si sedeva vicino al fuoco e vedendo quella brace ben accesa, veniva spesso preso dal desiderio di mangiare il "ciurasco", cibo che conobbe quando era in Sudamerica. Si faceva dare una belle fetta di carne di manzo molto spessa e la posava sulla brace ardente. Quando era ben arrostita, ne tagliava lo strato già cotto e mentre mangiava quella metteva sul fuoco l'altra non ancora cotta e così fino alla fine. Tra i suoi piatti vi era il minestrone alla genovese quello con l'aggiunta del pesto. Fra i secondi amava il pesce, specialmente se salato o seccato. Garibaldi mangiava spesso e volentieri la polenta, morbida e condita con un pò d'olio d'oliva e formaggio grattugiato

GARIBALDI E IL CLERO

A te Giuseppe eroe e cavaliere come San Giorgio, dolce e bello come un serafino, per ricordo delle suore che ti amano e pregheranno Santa Rosalia di conservarti felice. Quel Giuseppe non era un personaggio in odore di Santità ma un soldato accanito anticlericale, con un abbondante bagaglio intellettuale. Eppure quando nella Sicilia liberata  veniva inviato a far visita ai conventi femminili le pie ospiti come invase da una mistica passione lo colmavano di regali, ricami, nastri, fiori gli servivano dei "Garibaldi" in biscotto il suo nome in caramellato, il ritratto in marzapane e la dedica sopra scritta accompagnava una bandiera offertagli dalle monache di un convento palermitano. Presso i frati meno sdolcinature, ma pranzi eccellenti, inni patriottici. Da parte sua un soldato borbonico ferito dichiarava :" Chillo non è ommo nu yuorno lu diavulu si annommurai de na santa. Dopo nove mese nascette Garubbalde. Quannu combatte tenede lu patre, quann'è furnuta la battagghia tene de la madre". Figlio di padre religioso e di madre assai devota Garibaldi descrive così gli inizi della sua carriera scolastica. "I miei primi maestri furono due preti e credo l'inferiorità fisica e morale della razza italiana provenga massime da tale nociva costumanza". In Aprile nel 1849 i Francesi sono alle porte di Roma, Garibaldi entra in azione con la sua legione che ha come cappellano Gavazzi e si acquartiera al conventi di San Silvestro. Le monache sono state avvisate di sloggiare soltanto all'ultimo momento e non hanno avuto tempo di riunire tutti i bagagli così dimenticano qualcosa che avrebbe dovuto sparire. Così il garibaldino Marcora di Busto Arsizio scriverà a casa :" Trovammo cassette piene di fasce da bambini e di lettere amorose tra preti e persino di cardinali alle suore....." Battaglia finita intorno a Villa Pamphili l'unico a rimanere nella mani dei francesi è un prete Ugo Bassi preso mentre stava dando l'estrema unzione ad un morente.

UGO BASSI

Nato Cento di Ferrara nel 1801 era diventato barnabita a 20 anni ma ben presto fu diffidato per le sue idee liberali. Predicatore di grande fascino aveva raggiunto Roma per unirsi alle truppe garibaldine. Per catturarlo ( venne poi rilasciato il giorno seguente) gli avevano ucciso la cavalla Ferina sulla quale aveva percorso il campo incoraggiano i legionali " Garibaldi, scrisse poi alla madre, mi ha donato un cavallo tre volte più bello della Povera Ferina. Le ho tolto una ciocca dei suoi clini e l'ho pianta. E' morta da onorata". Ugo Bassi viene usato per i collegamenti tra le truppe. Il bel Barnabita ha conservato il cappello da prete sulla chioma e la barba fluenti, ha la croce sul petto ma indossa la camicia rossa. "Suora di carità, apostolo, valoroso soldato" lo chiamava Garibaldi e Ugo Bassi dichiarava:" nulla mi farebbe più felice di morire per Garibaldi". Il giorno 8 Agosto Ugo Bassi verrà giustiziato a Bologna. Mentre veniva accompagnato al patibolo, la folla urlava "Adesso vai a predicare la guerra contro gli Austriaci" Garibaldi pianse il suo amico ma subito dopo gli si affianca un'altro prete Giovanni Verità di Modigliana in contrato in Toscana durante la fuga. In Sicilia si unirà al Generale Fra Pantaleo, don Gavazzi e il parroco Gusmaroli.

domenica 8 maggio 2011

SALVATORE RAMPONE

Dal 1848 al 1860 Rampone fu uno dei maggiori artefici nel preparare, organizzare ed attuare l'insurrezione popolare di Benevento.La rivolta beneventina iniziata il 2 settembre mise in crisi i Borboni e spianò l'entrata di Garibaldi a Napoli. all'età di quindi anni salvatore approfondì i suoi ideali leggendo "Il Primato morale e civile degli italiani", giunto clandestinamente a Benevento per essere ristampato segretamente e sucessivamente distribuito ai patrioti del napletano.Così sotto gli occhi ingenui dei doganieri pontifici, transitavano, con la farina o col grano diretto nella capitale del Regno borbonico, le migliaia di coppie del Primato. appena ventenne partecipò nel 48 alla prima manifestazione patriottica. si iscrisse alla Giovane Italia e fu volontario nei battaglioni di volontari per la difesa di Roma combattendo a Porta Portese e a Porta San Pancrazio nel 49.Riuscì a sfuggire alla cattura e riparò come laico in un convento di Roma.La sua identità fu presto scoperta quando si rese conto che al posto dell'insalata gli servirono ortiche ed erbe.prima di lasciare il convento disegnò col lucido da scarpe due enormi baffoni sul volto marmoreo di PioIX. La sua casa prospicente l'antica piazza S. Caterina oggi piazza Mazzini fu presa di mira, la sua famiglia subì violenzo e lui fu condotto nelle carceri di Castello.Riacquistata la libertà incontrò la giovanissima Maria Pacifico.... appena quindicenne che nutriva i suoi stessi ideali. fra i due sbocciò l'amore coronato il 23 ottobre 1855 nella Parrocchia di S. Caterina (oggi Sant'Anna). I testimoni furoni amici suoi appartenenti al Comitato. Impavida e coraggiosa eroina Maria sfidò i rigori della vigilanza della gendarmeria pontificia trasformandosi in una portaordini. Usava enormi fiocchi di seta tra i quali nascondeva le missive

RAMPONE

La casa di Rampone era divenuta l'incontro di patrioti beneventani, nel salone principale era stato aperto un cunicolo sotterraneo che imetteva in un'uscita secondaria allo scopo di far perdere le tracce. L'imbocco del cunicolo era mascherato da una spessa lastra di marmo su cui erao riportati gli stemmi della famiglia Rampone. Maria Pacifico fu anche animatrice di un gruppo di donne, congiunte dei membri del Comitato, alle quale vengono affidati delicati incarichi quali la confezione della camicie rosse, delle coccarde e l'occultamento di armi e munizioni. Queste donne lavoravano segretamente nelle loro case. Importante iniziativa di Rampone fu la costituzione della Società Operaia per agevolare il lavoro delle classi operaie ottenendo l'elogio di Garibaldi. Il 19 maggio 1864 morì appena ventiquatrenne la consorte, da questa unione non nacquero figli. A Napoli incontrò la seconda moglie Anna Maria Gonzales, spagnola presso alcuni amici, Anna Maria morì poco dopo nel 1876 lasciando i tre figli. Salvatore si risposò con Sofia Pavesi Negri marchesa di Parma. Morì il 30 marzo 1915

PADULA E LA SUA TERRA

VINCENZO PADULA: sacerdote, cospiratore garibaldino

Nel 48 vari preti sono coinvolti nelle agitazioni. Successivamente nei primi anni 50 nella casa del genitore Michele, il prete don Giuseppe Cardillo continua a tenere i contatti con cospiratori cilentani e per un certo periodo si rende latitante. Tra i sacerdoti che popolano la Certosa di San Lorenzo, situata ai piedi del monte dove sorge Padula, emerge la figura di Vincenzo Padula. Nella primavera del 1856 ha ventiquattro anni essendo nato il 16 ottobre 1831.Vincenzo data la giovane età, durante i moti del 48, non aveva partecipato. Ha finito nel 56 il suo studio nel Seminario di Diano e ordinato sacerdote. Il padre Maurizio è originario di Montemurro, in Basilicata e la sua famiglia è stata in primo piano nelle vicende del 48. Rientrato a Padula è lui a intraprendre la via della cospirazione. Con tutta probalità è stato Don Cardillo ad introdurlo in un ambiente formato da preti liberali, oltre a laici, come i fratelli Santelmo, Raffaele Cavoli, Cesare Romano, Gaetano Scalia.il paese, dove la gente vuole vivere tranquilla rimane indifferente, osserva i cospiratori nei loro andirivieni  per ivicoli e le piazze, oppure recarsi nelle case, come quella dei Padula alla via detta Santo nella parte bassa del borgo. c'è chi sospetta che gli affiliati si incontrassero nel caffè detto Tepedino, dal nome del proprietario, ma gestito dal nipote Raffaele sansevero, che si trova nella parte alta del paese e qualcuno crede di aver capito la parola d'ordine. una risata particolare

IL PADULA

Ai paesani poi non sfugge che ogni tanto si veste da secolare e si reca in apparenti partite di caccia, insieme al fido cane Cerbero, nei monti alle spalle del paese, sono escursini che gli servono per incontrarsi nel bosco di Campolongo con emissari del Comitato di Montemurro, come Giacomo Albini, capo dei liberali di quella zona.Nel frattempo è diventato procuratore, cioè una spicie di amministratore, della chiesa di san Michele arcangelo. Il suo diretto superiore l'arciprete Antonio Santomauro, al quale non sfuggono le sue frequentazioni e le attività del suo dipendente, ci prova con le buone a dissuaderlo, poi gli intima di troncare le corrispondenze sospette. Questo non intimorisce Don Padula e i loro rapporti peggiorao, l'arciprete nota come altri che Vincenzo Padula ha un anello, forse d'oro, con tre pietre, una bianca, una rossa e una verde.. A Padula è ritenuto il capo del partito insurrezionale. Intrattiene una fitta corrispondenza coi Comitati delle altre regioni e città. le autorità insospettite mandano un distaccamento di truppe a sorvegliare la zona del Cilento per prefenire un contatto tra il brigantaggio. la vigilanza sul Padula si fà sempre più stretta. In seguito Padula verrà arrestato  insieme a Cardillo. I due sacerdoti si sentono orgoglosi della loro carcerazione e dimostrano sempre un'enorme entusiasmo per le loro idee. Si racconta che un giorno due suonatori, uno di chitarra, l'altro di violino si misero a suonare davanti ai cancelli delle carceri e i due preti di rimando si erano messi a ballare. Incarcerato nelle carceri di Salerno Padula cerca di riannodare le file della cospirazione, compito difficile. Al processo del 14 novembre, contro di lui Padula non rivela nulla e la sua carcerazione continua.dopo molto tempo e inutili suppliche della madre padula ed altri vengono mandati in esilio a Genova. Prima di imbarcarsi dal porto di Napoli Vincenzo scrive due lettere alla famiglia. A Genova agli inizi del 1860 quando vi arriva Padula è una città ove si sente l'entusiasmo per la conquista delle Sicilie. Tra il 5 e 6 maggio ogni volontario arrivava nella località Foce, a Quarto e a Villa Spinosa. vincenzo Padula salì sul piroscafo Lombardo. Combatte alla Porta Imerese e si merita i gradi di capitano

PADULA

Il 20 luglio nella piana di Milazzo divampa la battaglia ed è una delle più sanguigno  per i garibaldini, in questo caldo luglio siciliano Padula guida i suoi uomini all'assalto, attraverso i canneti sotto il tiro delle truppe borbiniche. Una scheggia di mitraglia colpisce al ginocchio destro Vincenzo, buttandolo a terra Trasportato nella vicina Barcellona Pozzo di Gotto, deve subire l'amputazione della gamba eseguita con anestesia dal chirurgo Zen, una camicia rossa della prima ora, partito con lui da Quarto. Sorgono complicazioni e la notizia del suo valore giunge fino a Padula, dove il fratello minore Filomeno è già arruolato nei corpi volontari insurrezionali. Filomeno riesce a partire per la Sicilia e raggiunge il fratello costretto a letto prima per complicazioni da decubito, poi per febbre malarica. Cessa di vivere il 29 agosto 1860

sabato 7 maggio 2011

FILIPPO LIARDO

 Nasce a Leonforte in provincia di Enna, nell'umile casa di papà Salvatore e da mamma Rosalia originaria di Catania, il ragazzino scorribanda per strade e campagne e mostra subito un forte interesse per la pittura. E' costretto a lavorare per guadagnarsi il pane, disegna le cose che vede e le sue fantasie. La famiglia si trasferisce a Palermo e filippo si arrangia facendo il venditore ambulante. entra nella bottega del pittore Salvatore Lo Forte imparando i rudimenti della pittura, apprende qui la pittura realista.Oltre a questo richiamo per l'arte nasce in lui il sentimento di libertà, partecipa alle riunioni segrete antiborboniche, quelle che spianeranno la strada ai Mille.Sentendo parlare della scuola napoletana, prende il piroscafo e arriva a Napoli nel 1857. Nello studio del pittore Domenico Morelli, completa il suo apprendistato e rinforza i suoi ideali visto che il suo maestro partecipò ai moti napoletani del 48. E' attratto da Garibaldi e arrivatagli la notizia dello sbarco a Marsale dei Mille, si imbarca per raggiungerli. Ogni volta che Garibaldi, "suonerà le trombe" metterà pennelli e colori nello zaino e impugnerà lo schioppo. Dipinge ciò che accade intorno, ottimo illustratore dell'epopea garibaldina, dalla sicilia, al Volturno a Trieste. A Napoli frequenta grandi artisti, nel 1862 è di nuovo sull'Aspromonte con la camicia rossa, e nel 1866 in Friuli e in Trentino. Nel 1864 Liardo sente l'innefrenabile desiderio dei macchiaioli. Di lui Telemaco Signorini dirà:" Tipo originalissimo e di molto ingegno. Nel 1878 raggiunge L'agognata Parigi con il quadro "il bombardamento di Palermo" Crea e ottiene grandi successi. Finisce, come tanti artisti in miseria. La sera senza un soldo in tasca si trascina al "Lapin agil" covo di artisti. Finisce sulla strada a chiedere l'elemosina in preda alla follia. Il 9 febbraio 1917 muore a Parigi.Asnieres, fu necessario che la colonia di artisti aprisse una pubblica sottoscrizione per poter dare all'artista degna sepoltura

venerdì 6 maggio 2011

FILIPPO LIARDO pittore garibaldino




PIGURINA ANGELO

ANGELO PIGURINA con Garibaldi a Montevideo poi in Italia

Angelo Pigurina nato a Cagliari nel 1815 fu un glorioso garibaldino, il suo nome non figura tra i garibaldini e non è nemmeno conosciuto nella sua città natale ma fu un valoroso garibaldino della prima ora. Amico personale e ufficiale fidatissimo del Generale gli fu a fianco in Sud America e in Italia. La storia di Pigurina emerge dagll'epistolario di Garibaldi e dal suo memoriale in lingua spagnola. i cagliaritani citati sono due, Pigurina e Giovanni Battista Fà, medico generoso che si prodigò a curare gli emigrati e i poveri della periferia di Montevideo. Il nome di Pigurina compare per la prima volta in una lettera del 1843 che Garibaldi inviò al Ministero della Guerra di Montevideo. In questa lettera Garibaldi chiede la promozione di capitano al tenente Pigurina per aver lottato valorosamente in uno scontro navale. L'amicizia con Garibaldi risale a dieci anni prima, quando nel 1834, l'appena diciannovenne Angelo si era arruolato nella Marina sarda e aveva partecipato al tentativo rivoluzionario di Genova edella Savoia. Fu catturato e rimase in carcere fino al 1836 e trasferitosi a Montevideo incontrò Garibaldi e lo volle con sè affidandogli il comando di alcune compagnie della Legione Italiana che nel 1846 si andava costituendo per rientrare e combattere per L'unità del Regno Sardo. Un episodio riguardante Angelo lo si legge nel Diccionario:Il suo matrimonio con una tredicenne uruguayana, Maria Dadana nel 1845 ( dalla quale ebbe quattro figli) Era in corso la Guerra Grande sul Rio della Plata e Pigurina ebbe l'incarico da Garibaldi di portare un messaggio al Comandante sull'altra riva del fiume. Il compito era arduo e rischioso così Angelo chiese al Generale di poter celebrare senza riti il matrimonio per non lasciare compromessa la giovane compagna. Poco prima di imbarcarsi potè sposarsi officiando il matrimonio con un sacerdote sulla spiaggia. Tornò sano e salvo

PIGURINA

Nel 1848 parte con Garibaldi e 65 legionari per l'Italia. Durante la prima guerra d'indipendenza ebbe il comando di una compagnia interamente di studenti dell'Università di Pavia " A me tocco l'onore di comandare questo battaglione di volontari tanto intelligenti che valorosi" scrisse nel suo Memoriale, confermato anche nelle Memorie scritte da Garibaldi. Nel 1848 Garibaldi decise che era giunta l'ora di difendere Roma che l'aveva chiamato in soccorso, con lui c'era il fedele Pigurina che combattè sul Bastione di San Pancrazio per respingere i francesi. Durante gli scontri Angelo fu ferito gravemente e non potè seguire Garibaldi nella sua fuga verso l'Adriatico.  Con le ferite ancora aperte Angelo riuscì a fuggire da Roma e rifugiarsi:"in Cagliari, il mio paese natio" " Non rividi Garibaldi-scrisse- se non tre mesi dopo quando giunse in Sardegna a bordo della nave Amalfitano. Da lui ricevetti una lettera che diceva:2 amico Angelo, per disposizione del governo sardo sono condotto in esilio nell'isola della Maddalena e poichè tu sei stato compagno nelle mie glorie e nei miei pericoli, spero che tu lo sia anche nell'esilio" Pigurina potè così riabbracciare Garibaldi a bordo della nave e insieme alla moglie e ai figli lo accompagnò a La Maddalena. Arrivato all'arcipelago il comandante dell'isola gli impedì di sbarcare ordinandogli di proseguire per Genova. Così voleva il Governo di Torino. "Allora Garibaldi mi consigliò di tornare in America nostra seconda patria" "Non è lontano il giorno- gli disse- in cui la nostra Patria avrà bisogno di noi e allora mio buon amico ci rivedremo" A Montevideo nel 1860 Pigurina ricevette una lettera da Garibaldi che lo invitava a raggiungerlo in Italia per una nuoova campagna risorgimentale. Gli rispose che a causa della fecchia ferita era rimasto invalido e non poteva lasciare mogli e figli senza sostentamento. Dismessa la divisa si dedicò all'allevamento e alla campagna. Morì in Uruguay senza aver più rivisto Garibaldi e la sua Sardegna

giovedì 5 maggio 2011

MAGGIOR LEGGERO

Giovanni Battista Coliolo o Culiolo nacque alla Maddalena il 17 settembre 1813 da Silvestro e Rosa Finga, famiglia di origine corsa. A 11 anni si arruolò nella Marina Sarda e per le sue doti d'agilità gli fu dato il soprannome di "Leggero". Dopo 15 anni di servizio fu nominato marinaio di 1° classe. Il 3 marzo 1839 avendo la sua nave fatto scalo a Montevideo disertò per raggiungere la Legione italiana a Montevideo. Era forte e coraggioso e conservava tutta la sua energia, nonostanta avesse le dita mozzate in vari arrembaggi. Ebbe un ruolo importante nel salvataggio di Garibaldi e della sua decisione di trasferirsi a Caprera. Non aveva un carattere facile, a Roma aveva ammazzatoncon una cannonata, il capitano Ramorino per vendicare la morte del suo amico Risso ucciso in  duelo. Era rimasto a Roma ricoverato per una ferita al piede, ma poi era scapato caudioicante, per raggiungere Garibaldi a Cesenatico.Dopo l'avventura romana lo si trova in Costa Rica e a causa di un combattimento rimane ferito al braccio destro che gli verra poi amputato. Caduto prigioniero, fugge e dopo varie peripezie trova lavoro come guardia di dogana a Punta Arenas. si trasferì nella Repubblica del Salvador arruolandosi in quell'esercito come istruttore. Alla fine del 1860 ricomparirà a Caprera per trascorrere gli ultimi anni della sua vita accanto a Garibaldi

GARIBALDINI : LUIGI BOTTINI il castaldo del Generale (muratore Bottini)

Luigi Bottini era un bel vecchio, forte, complesso, sano, con barba michelangiolesca, due occhietti grifani, scrutatori, era genovese e non parlava altro che il suo dialetto. Nel 1853 a ventun anni dopo aver navigato mezzo mondo andò alla Maddalena a fare il muratore, e visse per moltissimi anni accanto al Generale che lui chiamava Garibaldi. " questo tipo di uomo schietto, dalle manieri semplici, dal fare bonario di galantuomo, che era sempre pronto a fare qualcosa tanto era viva in lui l'abitudine al lavoro, sia nella trattoria che nella vigna "Bottini dice di aver conosciuto il generale appena e venuto a Caprera: Sbarcarono a Caprera-allora non v'era ricovero alcuno per abitare- lui e Menotti giovanetto, e fu portato a spalle dalla nave il San Giorgio, di proprietà del Generale, il legname con cui fu costruita la prima casetta di legno. Siamo nel 1855, Menotti ne ha 15. Bottini andò a vivere a Caprera nel 1850. Aveva sposato Vincenza Scanadicolo, la cui famiglia veniva dalla vicina Corsica. La prima figlia della coppia Rosina, nacque alla Maddalena il 26 aprile 1856. Fu così per i figli sucessivi, le cui nascite si alternano con le nascite a casa Garibaldi, rafforzando il legame tra le due famiglie ed in particolare tra le donne ( la signora Vincenza prese a balia per breve tempo, la figlia di Battistina Ravello e del Generale). Nasce Antonietta, nel 1861 il primo maschio, Menotti che viene tenuto a battesimo da Menotti Garibaldi e da Anna Maria Susini, figlia di Pietro. Sucessivamente Domenica, Giovannettae Giuseppe nel 1878.

LUIGI BOTTINI

Bottini racconta della costruzione della prima casa di pietra da lui fabbricata "il Generale mi portava le pietre, ma non è vero che aiutasse a fabbricare" e accetta anche i rimproveri per eccessiva quantità di pietre portata. Racconta che sotto ogni angolo della casa fu sotterrata una moneta d'oro di quaranta lire. il Generale era impegnato durante la giornata in molte altre attività: di giorno lavorava sempre nell'isola, la sera leggeva e scriveva, andava a letto presto, ma per continuare a leggere..Si occupava insieme a Menotti e a Bottini alle bestie, in particolare delle capre selvatiche, che venivano addomesticate da Garibaldi. Nell'isola abitavano stabilmente Menotti, Frusciante, Basso, Bidischini e qualche volta anche Canzio.Bottini. Nel 1878 si stabilisce definitivamente alla Maddalena e realizza, avendo sopraelevato il primo piano, assieme alle figlie Giovannetta e Rosina l'albergo Belvedere uno dei primi alberghi dell'isola. Ricciotti Garibaldi vi soggiorna in occasione delle visite sull'isola. Bottini racconta del legame perdurante con alcuni membri della famiglia Garibaldi, si tratta dei Canzio, perchè poi Bottini afferma che dopo la morte del Generale, Menotti e Ricciotti non si sono più visti a Caprera se non una volta l'anno il 2 giugno. Anche Francesca Armosino si è allontanata per vivere con la figlia Clelia all'Ardenza presso Livorno. Canzio vi permangono spesso, vi tenevano animali da cortile, diversi figli di  Canzio e Teresita si sposarono e Teresita vi rimase ininterrotamente gli ultimi anni della sua vita forse tra il 1898 al 1903, fu sepolta nel cimitero caprerino, poi chiuso con la sepoltura di Francesca e della figlia Clelia

lunedì 2 maggio 2011

LA NOBILTA'DEL BLU

Nel XIII secolo il colore più nobile è il blu, metafora di spiritualità. I pigmenti blu erano, l'oltremare ottenuto dai lapislazzuli, e l'azzirrite. Cennino Cennini nel suo libro dell'arte testimonia: "Azzurro oltremarino si è un colore nobile, bello, perfettissimo oltre a tutti i colori; del quale non se ne potrebbe nè dire nè fare quello che non sia più.... E di quel colore, con l'oro insieme (il quale fiorisce tutti i lavori di nostr'arte) o vuoi il muro, o vuoi in tavola ogni cosa risplende". Era molto costoso associato al rosso porpora e all'oro. I pittori lo usavano con parsimonia sotituendolo spesso con un altro pigmento più economico l'azzurrite. AZZURRITE era ricavato dal minerale azzurrite un carbonato basico di rame. I due pigmenti hanno un aspetto molto simile per distinguerli si scaldava un frammento fino a farlo diventare incandescente, raffreddandosi l'azzurrite diventava nera e il lapislazzulo no. Macinata molto finemente l'azzurrite produceva un celeste pallido con una punta di verde, per una tonalità più scura bisogava macinarla più grossolanamente, ma in questo modo era difficile da applicare e veniva usata quindi una colla animale. L'azzurrite col tempo si polverizzava e cadeva.

GLI OLII

Gli antichi usavano olio di noce o di papavero crudi e purificati ( un metodo semplice per schiarire un olio è di esporlo per lungo tempo al sole su una bottiglia di vetro o cristallo). I COLORI: I colori tradizionalmente usati sono per il giallo: il giallorino e l'orpimento, per il rosso il ginapro vermiglione e la terra di siena bruciata la lacca della robbia ( questa era usata per le velature). Per l'azzurro, azzurro di smalto o vetro di cobalto ( chiamato anche fritta di Alessamdria). A Venezia i pittori lo trovavano facilmente grazie all'industria del vetro. Per il blu oltremare la pietra preziosa dei lapislazzuli, per il bianco bh che è carbonato di piombo. Questo bianco anche se molto velenoso ha 2 vantaggi, di seccarsi velocemente e di dare bellissimi riflessi. I neri erano esclusi dalla pittura, Leonardo si sa che adoperò la grafite. Nel 500 i toni scurivenivano ottenuti dai bruni come mescolanza con terra bruciata a cui venivano aggiunti colori in tenue quantità. E' ipotizzato che i pittori del rinascimento e soprattutto i veneti abbiano usato per un ultima leggera velatura l'asfalto ( bitume)che conferisce al dipinto un giallo dorato. L'unico inconveniente è che può attraversare gli strati pittorici e far screpolare i dipinti.

PITTUTA AD OLIO NEL RINASCIMENTO: L'IMPRIMITURA

Gli antichi davano una notevole cura nella preparazione dei supporti. Vi sono diversi tipi di imprimiture che variano a seconda dei materiali usati e a seconda dei supporti. I legni usati per le tavole erano di pioppo o di quercia poi si passò all'uso di tele di canape o di lino. Le imprimiture su tela avevano bisogno di una maggiore elasticità ottenuta con colle di glutine e l'uso di olio nell'impasto. Per alcune veniva usata colla di farina di frumento colla aggiunta di gesso o creta (carbonato di calce). Un'imprimitura adatta per le tavole era costituita da colla di formaggio (caseina) e gesso. Si passava ad una seconda imprimitura di grafite e di nero di vite sciolta in una leggera quantità di olio questo permetteva una buuona brillantezza. Per la tela si scelsero colle meno rigide della caseina. A questa imprimitura chiara seguirono sempre più preparazioni colorate che si sovrapponevano alla prima imprimitura di gesso e colla e contenevano anche dell'olio di lino o di noce con l'aggiunta di pigmento colorato. Questo viene citato dal Vasari: "Quando vogliono cominciare, ciò è ingessato che hanno le tavole o quadri, gli radono e datovi di dolcissima colla quattro o cinque mani con una spugna, vanno poi macinando i colori con olio di noce o di semi di lino  ( benchè il noce è meglio, perchè ingialla meno) e così macinati con questi olii, che è la tempera loro, non bisogna altro, quanto a essi, che distendergli col pennello. Ma conviene far prima una mestica di colori seccativi, come bh, giallolino terra da campane mescolati tutti in un corpo ed un color solo, che quando la colla è secca impiastrarla su per la tavola.

giovedì 28 aprile 2011

GIORGIONE, TIZIANO, TINTORETTO, VERONESE

Nelle vite il Vasari dedica a Giorgione una decina di paginette. Di Giorgione poco sappiamo, era nato a Castelfranvo Veneto ma ancora ragazzo si era trasferito  a Venezia per fare l'apprendista nella bottega di Giovanni Bellini. A 18 anni possedeva già un'ottima tecnica che gli consentì di mettersi in proprio. Ben presto diventò ricco. Acquistò una bella casa in uno de quartieri più eleganti della città ne affrescò la facciata, ornò gli interni di suppellettili pregiate, vi tenne mensa inbandita e ne fece luogo di convegno di dame spensierate. La natura l'aveva fornito di una voce melodiosa e di un certo talento musicale. Cantava con grazia e suonava la viola. Erano i suoi passatenpi quando non dipingeva. Oltre al Bellini i suoi maestri furono Carpaccio che gli ispirò il senso dell'eleganza e della bellezza, da Leonardo apprese l'uso del chiaroscuro e il gusto degli sfondi evanescenti. La lettura di un poeta Jacopo Sannazzaro autore dell'Arcadia che celebrava la sana vita dei campi, lo volse a quel genere buccolico che dominerà la sua pittura tra questi La Tempesta. Aveva un debole per le donne nude, le sue figure femminili sono corpi stupendi, al sesso Giorgione come Raffaello non sapeva resistere. Quando la sua ultima amante si ammalò di peste seguitò a frequentarla ne fu contaggiato e a soli 34 anni pagò con la vita la sua devozione e la sua incontinenza. Tiziano Vecellio di appena un anno più
 giovane l'accompagnarono al cimitero. Tiziano nasce a Pieve di Cadore, di dove ragazzo era emigrato a Venezia nella bottega del Bellini aveva conosciuto Giorgione diventando amici. Nel 1511, anno della peste Tiziano fuggì a Padova. Nel 1513 tornò a Venezia e ottenne la carica di ritrattista ufficiale Dogi con uno stipendio di 300 corone l'anno. Campò fino a 99 anni lasciando numerosi dipinti come il Giorgione amò il nudo femminile. Dopo averlo visto Alfonso primo d'Este invitò l'autore a Ferrara. Ritrasse il Duca, l'ormai attempatella Lucrezia Borgia e un paccioso poeta di nome Ariosto che bazzicava quella corte gaudente e ospitale.

GIORGIONE, TIZIANO, TINTORETTO, VERONESE II

Tutti i signori della penisola volevano un suo dipinto. Nel 1530 l'Arretino lo presentò a Carlo V l'imperatore posò per un ritratto e lo ricompensò con 1 ducato, Tiziano se n' ebbe a male e il Gonzaga per rabbonirlo sborsò di tasca propria 150 ducati. Dopo vari viaggi sempre per lavoro nel 1552 a 75 anni l'artista si riaccasò a Venezia. Alla vigilia della morte fu incaricato di dipingere una Depisizione in cambio di una tomba, ma la peste non ne gliene lasciò il tempo. Quando Tiziano morì Tintoretto aveva 58 anni ma ne dimostrava di più. Aveva avuto una vita difficile, lotte e delusioni avevano lasciato nello spirito del corpo il segno. Si chiamava Jacopo Robusti ed era figlio di un tintore, da quì il suo soprannome. Aveva fatto l'apprendista presso il Tiziano che l'aveva licenziato malamente, chi dice per invidia chi per scarsa attitudine al disegno. Quando andò a bottega aveva 13/14 anni. Non entrò in nessun'altra bottega ma studiò le opere dei Bellini, del Carpaccio, del Giorgione di Leonardo, Raffaello e Michelangelo.Riempì interi quaderni di disegni sperimentò ogni tecnica pittorica era sgobbone, si fece tutto da sè. Per molti anni si adattò a verniciare mobili e a eseguire piccoli lavori. A furia di sacrifici e umiliazioni riuscì a sfondare. Per 100 ducati ottenne l' incarico di affrescare il coro nella chiesa della Madonna dell'Orto. Il dipinto li valse molte lodi e molti clienti. Fu in questo periodo che decise di porre fine alla sua vita randagia, prese per moglie una ragazza bella e formosa che gli diede 8 figli e andò a vivere in una modesta casa. Usciva di rado, non aveva amici e non voleva averne, era chiuso e taciturno. Dipingeva giornate intere dimenticandosi di andare a letto. Morì  nel 1594 a 77 anni, fu definito "il Michelangelo della Laguna". Paolo Cgliari, detto il Veronese frequento per un certo periodo nella città natale la bottega di Antonio Badile. Era un ragazzo amabile, sociebole e delicato e i salotti gli spalancarono le porte. Fece ogni sforzo per adeguarsi alla vita di quella ricca società festaiola investì i suoi guadagni in abiti, pellicce, gioielli e divento l'idolo delle signore. Cercava la compagnia dei ricchi e ritrasse nobili, borghesi, matrone, principi della Chiesa sullo sfondo di fastosi banchetti, feste e balli. A 38 anni sposò la figlia del maestro Badile, dalla quale ebbe 2 figli. Temperò la noia del matrimonio con l'adulterio e si circondò di amanti, mogli dei suoi clienti. Fu stroncato a 60 anni da una misteriosa febbre.

RAFFAELLO

Raffaello era nato nel 1483 a Urbino. Raffaello accompagnava spesso il padre a Corte, si sedeva al suo fianco mentre il padre affrescava le pareti del palazzo o ritraeva i duchi. Quando a 11 anni rimase orfano sapeva già dipingere con abilità. Gli zii l'affidarono al pittore Timoteo Viti, nel 1499 lasciò Urbino e si trasferì a Perugia nella bottega del Vannucci detto il Perugino, lavorò con lui 3 anni. L'artista lavorava giorno e notte, solo le donne riuscivano a distrarlo, gli piacevano tutte ma preferiva quelle brune e formose. Ne aveva tantissime perchè era bello, galante e generoso. Si vestiva con eleganza e portava alle dita costosi anelli, si attirò l'amicizia dei colleghi tra i quali il Pinturicchio. Nel 1504 si trasferì  Firenze e vi rimase fino al 1508, dividendo il suo tempo fra pittura e amori. Ne ebbe moltissime e le sue madonne le dipinse.Nel 1508 Giuglio II lo chiamò a Roma, ne fu felice anche perchè Roma pullulava di donne la cui reputazione non era migliore di quella delle fiorentine. In Roma Raffaello si mise subito al lavoro. Nel 1513 morì il Papa Giuglio II e gli successe Leone X di cui Raffaello diventò il pupillo Leone possedeva una vasta cultura, Raffaello ignorante ma avevano gli stessi gusti, la stessa concezione della vita, lo stesso amore per il lusso e la buona tavola. Solo sulle donne non erano d'accordo perchè mentre il papa era refrattario, Raffaello correva dietro alle gonnelle che si teneva vicine anche quando dipingeva.

RAFFAELLO II

Affrescando la villa Tiberina del banchiere senese Agostino Chigi ottenne che l'amante di turno vi fosse alloggiata, in modo che tra una pennellata e l'altra ne godesse le grazie. Guadagnava molto e aveva acquistato un bellissimo palazzo dove viveva come un principe circondato da uno stuolo di servi, aveva bisogno del lusso, il brutto e il volgare gli davano una sofferenza fisica. Quando usciva lo seguiva un corteo di amici e allievi, prendeva parte alle feste, ai banchetti che si tenevano sia alla Corte Pontificia sia in case di ricchi borghesi. Morì prematuramente, a provocarla furono, pare, gli eccessi sessuali. scive il Vasari: "Raffaello combinò fuori di modo i piaceri amorosi; onde avvenne ch'una volta tra l'altrodisordinò più del solito, perchè tornato a casa con una grandissima febbre, fu creduto da medici che fosse riscaldato. Onde non confessando egli disordine che aveva fatto, per poca prudenza, loro gli cavarono sangue, di magniera che indebolito si sentiva mancare, laddove egli aveva bisogno di ristoro. Perchè fece testamento: e prima come cristiano mandò l'amata sua fuori di casa e le lasciò modo di vivere onestamente, dopo dovise le cose sue fra discepoli suoi, Giuglio Romano, il quale sempre amò moltissimo, Giovan Francesco Fiorentino detto il Fattore, e un non so che prete da Urbino suo parente.... Poi, confesso e contrito, finì il corso della sua vita il giorno medesimo che nacque, che fu il Venerdì Santo, d'anni 37 ( 6 Aprile 1520)". L'amata cui accenna il Vasari era la celebre Fornarina, al momento del trapasso la donna sarebbe stata allontanata dalla stanza di Raffaello per ordine del confessore, che rifiutava di dare l'assoluzione al moribondo in sua presenza. La Fornarina non potè partecipare ai funerali e per il dolore uscì quasi di senno. Il cardinale Bibbiena le consigliò di farsi monaca e in un convento la poveretta passò il resto dei suoi giorni.

martedì 26 aprile 2011

SANDRO BOTTICELLI

Nacque a Firenze in via Nuova (oggi via del Porcellana) ultimo di quattro figli maschi e crebbe in una famiglia modesta ma non povera, mantenuta dal padre Mariano di Vanni Filipepi che faceva il conciatore di pelli ed aveva una sua bottega nel vicino quartere di Santo Spirito. numerosi erano infatti nella zona di Santa Maria Novella (dove si trova via del Porcellana) gli abitanti dediti a tale attività, facilitata dalla prossimità delle acque dell'Arno e del Mugnone. I primi documenti si Sandro sono costituiti dalledichiarazioni catastali (dette portate al catasto), vere e proprie denunce dei redditi in cui i capofamiglia erano obbligati a dichiarare i proprio beni, le rendite e le spese descrivendo lo stato della propria famiglia. In quello del 1458 il padre Mariano citò i quattro figli Giovanni, Antonio, Simone e Sandro, quest'ultimo ha 13 anni e viene definito "malsano" e che "sta a leggere". Il fratello Antonio era un'orefice di professione ed è probabile che l'artista avesse ricevuto una prima educazione presso la sua bottega mentre è da scartare l'ipotesi di un suo tirocinio avvenuto nella bottega di un amico del padre, un certo maestro Botticello, come riferisce il Vasari nelle Vite. Tuttora non esiste nessuna prova documentaria che conferma l'esistenza di questo artigiano. Il nomignolo (Botticelli) pare fosse stato attribuito al fratello Giovanni che di mestiere facevail sensale del Monte (un funzionario pubblico) e che nella portata del catasto del 1458 veniva vochato Botticello, poi esteso a tutti i membri maschi della famiglia. Il suo vero e proprio apprendistato si svolse nella bottega di Filippo Lippi dal 1464 al 1467. Nel 1469 Botticelli lavorava già da solo, come dimostra la portata al catasto del 1469 in cui è segnalato come operante in casa propria. Il 9 Ottobre 1470 Filippo Lippi morì a Spoleto e lo stesso anno Sandro mise bottega per conto proprio. Nel 1472 si iscrisse alla Compagnia di San Luca, la confraternita degli artisti a Firenze e spinse a fare altrettanto il suo amico quindicenne Filippino Lippi figlio del suo maestro, Filippino oltre che caro amico divenne presto il suo primo collaboratore.

SANDRO BOTTICELLI

Nel 1474 venne chiamato a Pisa per affrescare il Caposanto Monumentale. Nella dichiarazione del catasto del 1480 dichiarò un cospicuo numero di alievi e aiuti dimostrando che la sua bottega era ben avviata. Il 27 Ottobre 1480 Botticelli, Cosimo Rosselli, Domenico Ghirlandaio, Pietro Perugino e rispettivi collaboratori partirono per Roma per affrescare le pareti della Ceppella Sistina. Botticelli si vide assegnare tre episodi e il 17 Febbraio 1482 gli venne rinnovato il contratto per le pitture, ma il 20 delllo stesso mese morì suo padre costringendolo a tornare a Firenze per poi rimanervi. Nel 1493 morì suo fratello Giovanni e nel 1495 concluse alcuni lavori per i Medici nel 1498 i beni denunciati al catasto testimoniano un cospicuo patrimonio, una casa nel quartiere di Santa Maria Novella e un reddito garantito dalla villa di Bellosguardo nei dintorni di Firenze. Nel 1502 è un celebre scritto relativo alla realizzazione di un giornaletto denominato Beceri satirico , questo progettono fù mai portato a termine. Nel 1502 fù accusato di sodomia. Nel registro degli Ufficiali di Notte il 16 Novembre di quell'anno è riportato come il pittore "si tiene un garzone" questo episodio non portò danni all'artista il pittore ormai anziano trascorre gli ultimi anni dela sua vita in povertà e isolamento morì il 17 Maggio del 1510. Fù sepolto nella tomba di famiglia nella chiesa di Ognissanti a Firenze. L'unico suo erede fù Filippino Lippi.

venerdì 22 aprile 2011

LIONARDO

FRANCESCO MELZI

Francesco Melzi non fece subito ritorno in Italia, un documento c'informa che il 20 Agosto 1519 si trova ancora ad Amboise, con una pensione del re e che aveva assunto come servo il de Villanis è probabile che abbia ceduto a Francesco I i quadri che Leonardo aveva portato con sè in Francia. Dopo avere eseguito le ultime volontà del maestro e amico nel 1520 o 21 riprese la via di Milano con le migliaia di pagine dei taccuini, tutti i disegni, gli oggetti e gli strumenti che Leonardo gli aveva lasciato in eredità nel 1523 lo ritroviamo in Lombardia e in una stanza della villa di Vaprio viene dedicata ai manuscritti. Assume due scrivani ed essi sotto la sua direzione redigono la raccolta col nome "Trattato della pittura". Questo manuscritto passa al duca dI Urbino, nelle mani di uno oscuro artista milanese per poi entrare nel Vaticano. Il Milzi muore nel 1570. Si era sposato, suo figlio Orazio relega tutti i manuscritti in alcune casse in fondo ad un granaio di Vaprio. Questa storia vinene risaputa e alcuni amatori si recano alla villa ma il Melzi ignaro di ciò che aveva per le mani glieli donò. Oggi i manuscritti di Leonardo, interi quaderni, fogli isolati che a volte l'artista piegava per poterli portare comodamente con sè, pagine disegnate dai suoi quaderni disegnini sono suddivisi tra la Biblioteca Ambrosiana di Milano, l'istitut de France di Parigi Royal Library e musei a Londra, Oxford, all'Accademia di Venezia, all'ex Biblioteca Reale di Torino. Pagine di appunti e disegni si trovano anche a Firenze agli Uffizi, al Louvre e in tanti musei del mondo.

LEONARDO

Fra tutti i discepoli del Verrocchio, Leonardo sarà l'unico ad ereditare la polivalenza del maestro.E' accuratissimo "nella sua toeletta, nel lisciarsi i capelli e nel suonare il liuto". Termina il suo apprendistato e nel 1472, all'età di vent'anni diventa maestro. Rimane comunque nella bottega del Verrocchio, dipinde, disegna,impara, modella in argilla"alcune teste di femmine che ridono..e parimenti teste di putti, ma la sua preferita rimane la pittura. Frequenta altre botteghe, quella del Pollaiolo, che ha conoscenze umanistiche, scorticano i cadaveri per studiarne i muscoli. E' probabile che Leonardo entri nella bottego di Paolo di Dono detto Paolo Uccello, paesaggista, mosaicista, intarsiatore che nutre un appassionato interesse per la geometria e la prospettiva, l'amore per la scienza lo tiene sveglio notti intere,Leonardo gli somiglia, amano la matematica, le cose naturali, gli animali e soppratutto i cavalli.

LEONARDO E IL CIBO

A Milano Leonardo conduce una vita da gran signore" E non avendo egli, si può dir, nulla o poco lavorando, del continuo tenne servitori e cavalli, de' quali si dilettò molto e particularmente di tutti gli altri animali, i quali con grandissimo amore e pazienzia sopportava e governava" dice il Vasari. Leonardo ama gli animali sino al punto di diventare vegetariano. I conti di cucina che  infiorano i taccuini di Leonardo ricordano acquisti di carne destinati agli allievi, il maestro si regala insalate, frutta, legumi, cereali, funghi, pasta; predilige il minestrone. Su un paginone copierà queste regole igeniche in versi:
SE VOI STAR SANO, OSSERVA QUESTA NORMA:
NON MANGIAR SENZA VOGLIA, E CENA LIEVE;
MASTICA BENE, E QUEL CHE IN TE RICIVE
SIA BEN COTTO, E DI SEMPLICE FORMA.
SU DRITTO STA, QUANDO DA MENSA LEVE:
DI MEZZOGIORNO FA CHE TU NON DORMA;
EL VIN SIA TEMPRATO, POCO E SPESSO,
NON FOR DI PASTO, Nè A STOMACO VOTO,
NON ASPECTAR, Nè INDUGIAR IL CESSO;
SE FAI ESERCIZIO, SIA DI PICCOL MOTO.

LEONARDO

Un destino funesto si accanì contro Leonardo anche dopo la sua morte. Nel 1802 un senatore ebbe l'incarico da Napoleone di restaurare i monumenti di Amboise. La cappella di Saint-Florentin fu demolita. Poichè dei bambini giocavano a birilli con le ossa abbandonate fra le rovine, un giardiniere si assunse la responsabilità di nasconderle nell'angolo di un cortile. Nel 1863 il poeta Arséne Houssaye cominciò a scavare nel luogo in cui un tempo sorgieva Saint-Florentin, scoprì un grande scheletro intatto, con un braccio piegato e la testa stranamente appoggiata sulla mano, non lontano deo frammenti di una lastra con un'iscrizione mezza cancellata: "EO DUS VINC", LEONARDUS VINCIUS? Subito deposte in un cesto queste ossa furono smarrite e quindi ritrovate dal conte di Parigi che nel 1874 le fece seppellire al castello nella cappella di Saint-Hubert, con una targa sulla quale fece scrivere che si supponeva che là ci fossero le spoglie di Leonardo da Vinci.

LEONARDO E IL CENACOLO

mercoledì 20 aprile 2011

LEONARDO DA VINCI casa natale


LEONARDO

Indubbiamente Leonardo è  attratto da qualcuno come l'Alberti. Nato nel 1404, come Leonardo figlio illeggittimo, dotato di bellezza e di forza fisica (salta a piedi uniti sulle spalle di un uomo adulto, lancia una moneta con tanta forza da farla arrivare nel punto più alto della volta del Duomo, esperto cavaliere, brillante musico, noto nel campo artistico e scientifico.Filosofo, architetto, scultore, pittore dilettante, ingegnere, matematico. il suo autoritratto ci raffigura un lungo profilo ossuto, fiero dal naso decisamente diritto. La pittura ad olio entra in Firenze in un modo assai curioso. Si pensa che l'invenzione di questo procedimento sia dovuto al fiammingo Jan Van Eyck. Le tele mostravano infatti una superficie lucida con sfumature e trasparenze impossibili da ottenere con colori macinati con acqua, fossero essi usati sul legno trattato oppure fresco cioè un rivestimento di gesso fresco.Il siciliano Antonello da Messina partì per le Fiandre per essere iniziato direttamente alla tecnica di Van Eyck. La insegnò agli amici e a Domenico Veneziano che la trasmise alle botteghe fiorentine. I vantaggi dell'olio sull'acqua sono tanti: consente di sovrapporre gli strati di vernice senza che i colori si mescolino tra loro, di fonderli a piacere, è più facile rendere il rilievo, dare impressione dello spazio, col gioco dei chiaroscuri, sfumare i contorni. Nella bottega del Verrocchio si canta e si suonano diversi strumenti. A quel che si dice Leonardo ha una bellissima voce e suona di virtuoso la lira da braccio. Nei taccuini Leonardo schernisce coloro che "hanno sempre per lor consigliero lo specchio ed il pettine" e quelli che fanno uso della gomma arabica importata a carissimo prezzo dall'oriente per fissare le ciocche di capelli: "il vento dice è loro capital nemico sconciatore degli azzimati capelli" e raccomanda semplicità.

domenica 17 aprile 2011

LEONARDO

L'1 giugno 1519 Francesco Melzi scrisse ai fratellastri di Leonardo per informarli della sua scomparsa: "Credo siate certificati" dice " della morte di maestro Lionardo fratello vostro e mio quanto ottimo padre, per la cui morte sarebbe impossibile ch'io potesse esprimere il dolore che io ho preso. E in mentre che queste mie membra si sosterranno insieme, io possederò una perpetua infelicità, e meritatamente perchè sviscerato e ardentissimo amore mi portava giornalmente. E' dolto a ogniuno la perdita di tal uomo, quale non è più in podestà della natura". Bartolomeo sposò una ragazza nei dintorni di Vinci e nacque un figlio al quale mise nome Piero. Vasari prosegue:" Era desideroso Bartolomeo di avere un figlio mastio e pregava Iddio che questo figliolo avesse l'ingegno di suo fratello Leonardo." Il bambino aveva una "vivezza d'ingegno mirabile". Venne edotto nelle lettere, imparò da solo a disegnare e a modellare figure di terra e Bartolomeo disse:" 'l fratello gli fosse stato renduto nel figluolo". Mandò il figlio Pierino da Vinci a studiare a Firenze presso Baggio Bandinelli, un tempo legato a Leonardo, quindi lo affidò allo scultore detto Il Tribolo. Si recò a Roma dove assimilò lo stile di Michelangelo. Quando la sua fama cominciava a diffondersi all'eà di 23 anni fu portato via da una febbre, a Pisa nel 1553. Di lui retsano alcune sculture, il Dio delle acque al Louvre e un Sansone e un filisteo a Firenze in Palazzo Vecchio.

MORTE DI LEONARDO

Il 23 aprile 1519 qualche giorno dopo il compimento del suo 67 anno, chiede ad un notaio di Amboise, Guglielmo Boreau di ricevere il suo testamento in presenza di testimoni. Non poteva più reggersi in piedi , veniva sorretto dagli allievi e dagli amici. Nel testamento raccomanda l'anima a Dio, desidera essere inumato a Saint-Florentin di Amboise e che le sue spoglie vengano portate dai cappellani e seguite dal priore, dai vicari e dai frati minori di questa chiesa. Che siano celebrate tre messi solenni, che sessanta poveri, ai quali saranno state fatte delle elemosine, portino sessanta ceri, che vengano accese dieci grosse candele quando si pregherà. Lascia al suo servo Battista de Villanis il diritto dell'acqua accordatogli da Luigi XII sul Canale San Cristoforo e metà della vigna offertagli dal Moro, lascia l'altra metà a Salai insieme alla casa posta sul podere. Alla serva Mathurine lascia:" una veste de bon pan negro foderata de pelle et doi ducati per una volta solamente pagati". Ai fratellastri 400 scudi del sole che ha sul conto di Santa Maria Novella a Firenze, oltre alla piccola proprietà ereditata dallo zio Francesco. A Messer Melzi lega infine tutto il resto, la pensione e tutto il suo patrimonio artistico

LEONARDO

Nel luglio del 1493 prende con sè oltre agli allievi una donna di nome Caterina. Più che una semplice serva potrebbe trattarsi dekka vera madre. Freud non dubita nemmeno un istante che Caterina fosse la donna che messer Piero aveva abbandonato dopo avergli dato un figlio e andata poi sposa all'Attaccabriga. Di questo fatto non esistono prove.Adesso sua madre doveva avere sessantasei anni. I registri del catasto permettono di seguire le tracce fino al 1490. Ha avuto quattro figlie ed un figlio, ha vissuto tutta la vita miseramente nei dintorni di Vinci. Restano nel villaggio solo due figlie, entrambe vedove e tre bimbette, il ragazzo resta ucciso a Pisa da un colpo di archibugio. Agli allievi dice:"venne a stare con meco", nei suoi taccuini annota :Caterina venne a dì di luglio 1493" Caterina non viene più menzionata se non per il giorno delle sue esequie avvenute nel 1495/1496. Nei suoi taccuini annota le spese per il funerale, troppo per una governante da soli tre anni al suo servizio. La spesa complessiva era di $ 129 e comprendeva 3 libbre di cera, per il cataletto,palio sopra il cataletto, portatura della salma e della croce,per 4 preti e 4 chierici, per la licienzia agli uffiziali, il medico, zucchero e candele.

LEONARDO

Il Vasari accusa Leonardo di eresia, di non dipendere da nessuna religione, di ritenere il suo sapere scientifico superiore alla religione cristiana. lo accusa di peccare do orgoglio e di essere un blasfemo.Leonardo disprezza le smancerie " de' frati che spendono parole ricevano di gran ricchezze, e danno il paradiso" " E molti, fecer bottega con inganni e miracoli finti, ingannando lo stolta  moltitudine e se nessuno si scpria conoscitore de' loro inganni essi li puniamo" quando al commercio degli oggetti di pietà dice:"l' vedo di novo venduto e crocifisso Cristo e martirizzare i sua santi" Si scaglia contro la vendita delle indulgenze, critica il fasto esagerato dellaa Chiesa, l'obbligo della confessione, il culto dei santi, schernisce i prelati inutili che pretendono "di farsi amico Dio" oziando tutto l'anno in sontuose dimore. Leonardo non è ateo, egli crede in Dio, lo scopre nella miracolosa bellezza della luce, nel moto dei pianeti, nella sapiente disposizione dei muscoli e dei nervi del corpo umano, e in quel capolavoro che è l'anima. Lo chiamo "il primo motore""l'inventore. Leonardo non è un praticante

VERROCCHIO

Il Verrocchio, quando entra nella sua bottega, Leonardo ventenne ha trentun anni. Per quanto ancora giovane Andrea appare un uomo maturo, solido responsabile.Un tragico incidente ha condizionato la sua vita. Una sera adolescente, passeggiava con alcuni amici fuori mura, tra Porta alla Croce  e Porta a Pinti.
Quando si è poveri non essendoci molti mezzi di distrazione ci si accontentava dei passatempi più semplici, lui e gli amici si divertivano a lanciare sassi. Colpì disgraziatamente ad una tempia un certo Antonio di Domenico, l'anaiolo di 14 anni. Tredici giorni dopo il ferito morì, Andrea venne arrestato gettato in prigione e processato per omicidio involontario. I magistrati erano abituati ai giochi con le pietre e lo rilasciarono quasi subito. Aveva però ucciso, era segnato non aveva voglia più di ridere. Suo padre esattore delle imposte morì in quello stesso anno. Lasciava la moglie (Nannina, che non era la madre ma la matrigna di Andrea), sei figli (4 maschi e 2 femmine) e più debiti che beni. Ognuna delle figlie ricevette come dote una casetta, Andrea al contrario, ereditò il carico di metà della famiglia. Il Verrocchio aiuta un pò le sorelle Apollonia e Tita ed ha cura del fratello Tommaso, malaticcio ed ha il carattere instabile che esercita senza grande successo il mestire di tessitore. Sistemerà generosamente i nipoti, sia maschi che femmine.

VERROCCHIO

Le sue dichiarazioni fiscali sfiorano il patetico: " Non guadagniamo le chalzi", lui e il fratello non hanno di che calzarsi, scrive, il Verrocchio continua a pianger miseria. Il suo ritratto mostra un uomo dal viso squadrato, pesante, testardo, animato da due grandi occhi neri inquisitori. Sotto il grosso naso, le labbra sottili non esprimono emozioni. Nessuna mollezza se non forse nel mento piccolo, nervoso e femminile. Maestro Andrea non resta mai inattivo: infaticabile, dice il Vasari, ha sempre qualcosa in cantiere "Perchè meno.... gli venisse una stessa cosa a fastidio". E' entrato come apprendista presso l'orafo Giuliano de' Verrocchi e ne ha assunto il nome secondo un uso in segno di rispetto. Il maestro Andrea allarga il campo della sua attività, si presenta come pittore, decoratore, scultore e orafo. La sua bottega che sicuramente gli serve anche da abitazione situate in via dell'Agnolo, nella parrocchia di Sant'Ambrogio è in grado di soddisfare più richieste. La bottega è un'azienda, un negozio, un piano terra, un locale che si apre sulla strada allo stesso livello della rumorosa via Fiorentina dove si vive, i bambini giocano e i cani, i maiali, i polli, circolano liberamente.

sabato 16 aprile 2011

VERROCCHIO

 Gli apprendisti assunti rappresentano una manodopea a buon mercato o perchè pagano per l'insegnamento che gli viene impartito cominciando con lo svolgere dei lavori più umili, fare le commissioni,spazzare il pavimento, pulire i pennelli, impastare il gesso, sorvegliare la cottura di colle e vernici. Una volta assimilati i rudimenti del mestiere, continuando ad osservare attentamente quello che fanno i più anziani e come lavora il maestro, il discepolo partecipa sempre di più a tutte le opere  avviate dalla bottega.Il Verrocchio è molto più scultore che pittore (nei documenti ufficiali è detto "scharpellatore", cioè scalpellino scultore, talora orefice, intagliatore, mai pittore. Tra i personaggi famosi che entrarono nella bottega del Verrocchio ricordiamo: il Perugino, Lorenzo di Credi, il Botticelli, Ghirlandaio, Luca Signorelli. Quando Leonardo entra nella bottega del Verrocchio, la bottega del maestro Andrea sta per diventare un luogo di incontro di tutti i giovani artisti fiorentini, è un laboratorio, un fecondo crogiolo.Si mette in discussione il mondo, si critica ciò che avviene in città